FORLI’ (parte quinta)
Il 30 maggio 1406 vi fu una svolta decisiva perché papa
Innocenzo VII venne a sapere, o comunque sospettò, di contatti in corso tra i
forlivesi e di Veneziani dalla parte, e i fiorentini dall'altra. L'intervento
di una delle due potenze avrebbe creato una situazione spinosa di difficile
soluzione per cui, contro la volontà del cardinale Cossa, si giunse ad un
raccordo che prevedeva il riconoscimento degli organi di governo cittadini e,
per contro, la cessione di Forlimpopli al diretto dominio della Chiesa e la
facoltà assegnata al legato di scegliere il capitano del popolo ed il podestà.
Alla città tolto l'interdetto e la rocca di Ravaldinofu affidata al controllo
di un corpo di guardia formato da elementi di entrambi gli schieramenti.
Nel giro però di appena un anno il cardinale corso riuscì
tuttavia a manovrare in modo da avere il controllo politico e militare della città.
Lo fece con un inganno, provocando un finto attacco dei Malatesti alla rocca di
Ravaldino. i forlivesi, convinti che gli eterni nemici stessero tentando di
impadronirsi della città, chiese l'intervento del cardinale Cossa che già si
trovava non casualmente con tutto il proprio esercito nei pressi di Forlì. In
questo modo fu la città stessa, involontariamente, a darsi alla chiesa il 9
luglio del 1407.
tutto faceva pensare che fosse definitivamente tramontata la
signoria forlivese ma, un Ordelaffi, precisamente Giorgio figlio di Tebaldo,
utilizzo di anni tra il 1406 e del 1410, durante i quali risedette Ravenna, per
organizzare il ritorno della famiglia al potere.
Il papa, che non voleva lasciare Forlì nelle mani di un
governo comunale lontano dalle posizioni papali, inviò il cardinale Baldassare
Cossa alla testa di un esercito per reprimere l'istituzione comunale e
ripristinare il potere pontificio. Baldassare Cossa governò Forlì in qualità di
legato pontificio dal 30 maggio 1406 al 1410, anno della sua elezione al soglio
pontificio con il nome di Giovanni XXII.
Nel 1410, con la mancanza del legato pontificio eletto papa,
Giorgio Ordelaffi, nipote di Francesco, fece un primo tentativo per riprendere
la guida sulla città, ma senza successo. L'anno successivo, insieme ad Antonio
Ordelaffi, l'azione fu ricompiuta e portata a buon fine. Pur di tenere il
potere senza condividerlo con altri, Giorgio Ordelaffi fece imprigionare
Antonio nella rocca di Imola, dove rimase fino al 1424, anno durante il quale
fu liberato dai Visconti di Milano.
Giorgio governò per un breve periodo la città nelle duplici
vesti di Signore (dal 1411) e Vicario pontificio (la nomina risaliva al 25
dicembre 1418), fino al giorno della morte avvenuta il 25 gennaio 1422.
Giorgio Ordelaffi lascio come erede un figlio molto giovane,
Tebaldo Ordelaffi. In attesa che diventasse maturo per sopportare i pesi del
governo della città, venne posto sotto la tutela dei Visconti, nella persona di
Filippo Maria Visconti. Ma Tebaldo morì ragazzino, colto da peste, nel luglio
1425. Della prematura morte dell'Ordellaffi ne approfittò il Visconti che, con
l'intento di allargare la propria sfera di influenza, inviò un contingente
militare contro Forlì, riuscendo così a controllare gran parte del territorio
forlivese. In quello stesso periodo però la Repubblica veneta cominciò a
minacciare Milano, sede dei Visconti e, nel tentativo di difendere in maniera
più efficace il ducato di Milano, i Visconti abbandonano Forlì, consegnandola
al papa.
Il 16 maggio 1426 il legato pontificio Ludovico Alemanni
prende possesso di Forlì per poi ritornare a Bologna, affidando il governo
della città al vescovo Domenico Capranica. Il vescovo governò con lungimiranza
e fermezza e riuscì ad annullare i tentativi portati avanti da Antonio
Ordelaffi di riprendere il controllo della città.
Il 6 gennaio 1431 a Forlì si succedette un altro legato, il
vescovo veneziano Tommaso Paruta che, al contrario del predecessore, non riuscì
ad assicurare alla città un periodo di stabilità politica ed economica. Temendo
molto spesso di perdere il controllo della città e sospettando in ogni istante
che si stesse covando un ribaltamento del potere a favore degli Ordelaffi, fece
arrestare, torturare ed anche condannare a morte tutti coloro i quali venissero
sospettati anche solo minimamente di favorire il ritorno degli Ordelaffi al
potere. Tale comportamento, condotto dal vescovo allo scopo di impedire in
qualsiasi modo il ritorno degli Ordelaffi cercando di controllare in maniera
ferma la città, ebbe invece il risultato paradossale di far sollevare la
popolazione che si ribellò alla condotta politica del vescovo che fu costretto
a sfuggire. La residenza del legato, l'attuale palazzo comunale fu saccheggiato
e messo a ferro e fuoco dal popolo il 12 gennaio 1434.
"Storici e cronisti forlivesi fino al
Rinascimento"
Del vuoto di potere venutosi a creare a seguito della fuga
del vescovo-governatore Tommaso Paruta, ne approfittò Antonio Ordelaffi, molto
ben visto dalla popolazione che lo considerava abile condottiero e signore equo
in grado di difendere la città da una probabile feroce reazione papale.
L'Ordelaffi in breve tempo prese possesso della Rocca di Ravaldino e dei
territori principali quali Forlimpopoli, San Cassiano, Predappio, Fiumana,
Rocca delle Caminate, Rocca d'Elmici, Petrignano e Dovadola.
Papa Eugenio IV, di fronte ad un'azione così decisa
dell'Ordelaffi, invece di scendere in Romagna e ristabilire l'ordine papale con
la forza, preferì scendere a patti con il signore concedendogli, per almeno 3
anni, il vicariato di Forlì, preferendo così evitare un'altra guerra e
governare la città indirettamente attraverso gli Ordelaffi.
Ma la condotta non saggia del governo della città, fece in
breve tempo perdere il controllo su Forlì. Perso il sostegno di una parte dei
forlivesi, Antonio Ordelaffi si trovò in dissenso anche con il vescovo
Caffarelli e con l'umanista Flavio Biondo il quale, temendo per la propria
vita, riparò presso Firenze. Antonio Ordelaffi, trovatosi indebolito ed
isolato, fu attaccato dall'esercito papale che contava, causa l'indebolimento
dell'Ordelaffi, di ripristinare un più stretto controllo sulla città. Antonio
Ordelaffi, oramai rimasto solo, fu msso in fuga e lascio Forlì l'11 luglio
1436.
La città passò nuovamente al papato sotto il governo di
Lorenzo da Todi. Nel frattempo l'influenza dei duchi di Milano si stava
espandendo nelle Romagne e città dopo città cadevano sotto il controllo dei
Visconti. In questa ottica, I Visconti decisero di unirsi agli Ordelaffi per
potersi infiltrare nel governo della città. Antonio Ordelaffi, richiamando a sé
truppe fedeli ed allenandosi con i duchi di Milano riuscì nuovamente ad
impossessarsi del controllo di Forlì ed ad entrare vittoriosi in Forlì il 20
maggio 1438.
Antonio Ordelaffi, comprendendo perfettamente la strategia
dei Visconti che miravano al dominio su Forlì, tentando di limitarne
l'infiltrazione, pensò così di liberarsi di tale invadente alleato,
avvicinandosi a Firenze e chiedendone la tutela.
Il 9 giugno 1443 Antonio ed i figli Cecco e Pino riottennero
il vicariato da papa Eugenio IV.
Antonio Ordelaffi morì di peste il 4 agosto 1448, lasciando
una città spopolata a causa della malattia che oramai attanagliava tutta
l'Europa.
Morto il padre, Cecco III governò sulla città insieme al
fratello Pino, lo zio Ugo Rangoni e la madre. Sebbene fossero molte i
personaggi coinvolti nel governo della città, non vi furono dissidi, attriti,
né rivalità ed invidie. Ciò permise a Cecco III di governare sulla città per
circa 18 anni, fino al 1466, assicurando alla città pace e stabilità politica.
L'oculata gestione della cosa pubblica, nonché strategie e alleanze specifiche,
consentirono lo sviluppo economico ella città che comincio ad abbellirsi ed
arricchirsi di pregevoli opere d'arte.
I matrimoni combinati della madre Caterina permisero
l'alleanza con Faenza, l'antica rivale di sempre, portando ad un periodo di
pace e tranquillità interna. Fece ampliare la rocca di Ravaldino e, a partire
dal 5 luglio 1459, pose la pietra del palazzo del podestà.
la concordia che regnava all'interno della città sembrava
non doversi spezzare mai, in seguito a frizioni interne, Cecco fece allontanare
Pino ed i familiari dalla città i quali cominciarono a tramare contro di lui in
favore di Pino III. Il 4 gennaio 1466 la congiura scatta: Cecco viene
imprigionato ed il 24 aprile venne ucciso dagli uomini di Pino III.
Pino III Ordelaffi
È con Pino III che la signoria degli Ordelaffi raggiunge il
massimo splendore e, dopo di lui, si apre un periodo di crisi che porterà alla
fine dell'attività della famiglia nelle vicende di Forlì.
Pino III, dopo aver fatto uccidere il fratello, seppe tenere
il controllo del potere in maniera salda e decisa, comandando con intelligenza
ma anche con estrema spregiudicatezza arrivando, molto spesso, a far uccidere
chiunque giudicasse pericoloso nell'insidiare la propria figura nel comando
della città. Ne fece le spese anche la seconda moglie, Zaffira Manfredi,
ritenuta colpevole di aver tramato contro il nuovo signore.
Sebbene estremamente spregiudicato, Pino III si dimostrò
abile politico. sapendo che era impossibile mantenere l'indipendenza della
signoria con le poche forze che disponeva, in un ampio contesto politico che
vedeva la Romagna e Forlì come centro di numerosi interessi strategici, riuscì ad
allearsi di volta in volta con altri stati locali e le vicine signorie.
Mettendo il proprio esercito al servizio della Chiesa, riuscì ad assicurarsi
l'alleanza del pontefice, garantendo la sicurezza dei confini meridionali della
signoria che confinavano con lo Stato della Chiesa. Allenandosi con Galeazzo
Maria Visconti, duca di Milano, riuscì a farsi nominare conservatore della
parte di Romagna governata dai Milanesi.
L'oculata politica internazionale, permise a Pino III di
accumulare numerose ricchezze, che vennero spese in maniera intelligente.
Oramai entrati nel Rinascimento, Pino III ingaggiò numerosi artisti per
abbellire le sedi signorili e la città tutta. L'alta disponibilità in denaro
permise a Pino III di fortificare la città, costruire nuove chiese e monasteri
senza gravare in maniera eccessiva sulle casse della città, senza imporre
eccessive tasse sulle tasche della popolazione. Presso la corte forlivese
prestarono servizio numerosi letterati ed artisti, facendo raggiungere alla sua
signoria il massimo dello splendore.
Ma molte erano le forze che tramavano alle sue spalle e Pino
IIIcominciò a liberarsi di coloro che lo intralciavano nelle sue decisioni o
che si contrapponevano al suo volere. Questo atteggiamento portò Pino III ad
isolarsi gradualmente, facendosi il vuoto intorno. Tale vuoto si fece ancor più
totale quando, nel 1475, la futura 3ª moglie, Lucrezia pico della mirandola,
prima ancora di sposarlo, per mettersi dalla parte sicuro, provvide
personalmente all'avvelenamento di Ghinolfo da Romena, governatore di Forlì,
complice e principale artefice degli assassini alla corte forlivese.
Nell'ottobre dello stesso anno i due si sposarono e a novembre Lucrezia si
trasferì da mirandola a Forlì. Pino III stava invecchiando e le sue condizioni
fisiche andavano col tempo peggiorando. Nel 1479 il signore di Forlì si ammalò
di febbri quartana poi, nel gennaio del 1480, il suo stato di salute sia però
pari a causa delle ricorrenti crisi epilettiche a cui era soggetto sin da
bambino. La moglie Lucrezia, preoccupata per la sua prossima possibile
vedovanza, consigliata da Giacomo Suardi, pensò allora a un piano che
permettesse di restare signore della città anche dopo la morte del marito:
sposare il nipote Antonio Maria avrebbe infatti estromesso dal potere
Sinibaldo, erede naturale della signoria. Quando Pino 3º viene a conoscenza
della tresca, fece incarcerare il Suardi nella rocca, poi ordinò che venisse
giustiziato e che il suo cadavere, chiuso in sacco, fosse gettato nel fiume
Ronco. Il 2 febbraio 1480, vino e la moglie erano inviati a una festa
organizzata in caso di Checco Paulucci. Prima di recarsi al ricevimento Pino
decise di andare a messa ma di si sentì male e fu costretto a far ritorno a
palazzo. Rimessosi in 6º, ordinò che venisse stilata la lista delle belle donne
che sapevano ballare perché domenica 13 febbraio voleva dare una festa, alla
faccia degli astrologi che gli avevano predetto che la sua morte sarebbe
avvenuto entro quel giorno. I 9 febbraio i signori di Forlì ebbe una grave
ricaduta della malattia. Preoccupato dalla approssimarsi della morte, dettò le
sue ultime volontà. morì il 10 febbraio, ancora non è chiaro se di morte
naturale o se per avvelenamento da parte della moglie. È con la morte di Pino
III che a fine il dominio degli Ordelaffi in Forlì. Dopo il funerale, Lucrezia
chiamò a coadiuvare nel governo della signoria il fratello, Antonio della
mirandola, il quale venne immediatamente considerato dai forlivesi un intruso.
Per vincere la diffidenza dei suoi sudditi Lucrezia istituì allora un consiglio
generale che doveva nominare gli anziani che l'avrebbero assistito. Questo
piacque a parte dei forlivesi, ma in segreto la maggioranza appoggiava il
tentativo di restaurazione dei figli di Cecco che, con l'aiuto di Galeotto
Mnfredi, signore differenza, spinsero Lucrezia ad asserragliarsi nella rocca di
roba di. Lucrezia già da tempo aveva percepito che per lei in città non tirava
+1 bonaria, perciò si era premunito facendo trasportare all'interno della
fortezza l'intero tesoro della famiglia Ordelaffi. mirare per molto tempo
riuscì a sfuggire alle trame di corte, non così accade il 10 febbraio 1480
quando la terza moglie, Lucrezia della Mirandola, pensando che il marito
volesse ucciderla, lo fece avvelenare, ponendo fine ad un periodo di splendore
ma anche ponendo le basi per la fine della signoria degli Ordelaffi.
Sinibaldo Ordelaffi, figlio illegittimo di Pino III, venne
riconosciuto da papa Sisto IV come vicario di Forlì ma, essendo ancora troppo
giovane, fu sostituito al comando della città dalla madre Lucrezia della
Mirandola che assunse la reggenza della città come tutrice.
Ma una consistente parte della popolazione non vedeva di
buon occhio Lucrezia della Mirandola reputata la donna che aveva tramato contro
il proprio marito uccidendolo. Si formarono due fazioni, una favorevole a
Sinibaldo ed una seconda fazione, rifugiatasi a Faenza fin dal 1469, sosteneva
i figli di Cecco. Sinibaldo, giovane, inesperto ed impossibilitato a gestire la
situazione, si rifugiò nella Rocca di Ravaldino dove morì il 18 luglio 1480.
Sisto IV, vedendo che la situazione a Forlì stava
precipitando, colse l'occasione per imporre alla città un più fedele e sicuro
alleato. Considerando Sinibaldo unico legittimo vicario di Forlì, deludendo le
aspettative dei sostenitori dei figli di Cecco che speravano di assumere il
potere in città, Sisto IV affidò le sorti della città al suo nipote, il conte
Girolamo Riario, capitano generale dell'ersercito pontificio e governatore di
Castel Sant'Angelo, al quale già era stata affidata Imola nel 1474.
Girolamo Riario, almeno nei primi tempi, decise di rimanere
a Roma e curare i propri affari insieme a Caterina Sforza, inviando come
governatore Francesco da Tolentino. Con l'arrivo del nuovo governatore, tutti
gli Ordelaffi lasciaro la città e Lucrezia, ultima ad abbandonare la città,
svuotò la città della maggior parte delle proprie ricchezze. Abbandonarono
Forlì 32 carri colmi di tesori e di 130 000 ducati e con tutto l'archivio della
famiglia. L'archivio andò perduto nel corso delle vicende e con l'archivio si
perse la maggior parte della storia della famiglia degli Ordelaffi e di
conseguenza della storia della Città.
Terminava così per sempre l'influenza degli Ordelaffi nelle
sorti della città, aprendo la città ad una nuova signoria, quella di Girolamo
Riario e della nobildonna Caterina Sforza, figlia naturale del duca di Milano.
Papa Sisto IV, con la nomina di Girolamo a vicario della
città, veniva a controllare zone strategiche del nord Italia che al tempo erano
contese tra il ducato di Milano, la repubblica veneziana e Firenze.
Nel luglio 1481 i coniugi si recarono in visita a Forlì al
seguito di una copiosa scorta armata. Sapevano infatti che i forlivesi non
vedevano di buon occhio una signoria non locale ed avrebbero preferito una
signoria originaria della città. Le cronache narrano che per 8 giorni entrano
in città carri con preziosi, il tutto coronato da gualdrappe viscontee ed
arazzi con le insegne nobiliari. Infine, il 15 luglio, la coppia di signori
entrò in città, in lettiga, attraverso Porta Cotogni.
Il Riario cercò in tutti i modi di farsi amare e rispettare
dai forlivesi e nel tentativo di accaparrarsi le simpatie del popolo, il giorno
stesso dell'entrata in città, confermò l'abolizione di tasse già enunciata
quando ancora risiedeva a Roma.
L'avvento del Riario significò anche l'elargizione di
donazioni e l'abbellimento della città, così come il completamento di chiese e
palazzi e l'esecuzione di un'ampia amnistia. Consapevole che la Rocca di
Ravaldino costituiva il fulcro della difesa cittadina, ne approntò
l'ampliamento, rendendola capace di ospitare fino a 2000 soldati.
Questa profusione di sforzi però aveva un costo, e la
maggior parte dei fondi proveniva dal suo potente parente, il papa Sisto IV. Il
12 agosto 1484 il papa morì e Riario restò senza alcun alleato ma soprattutto
non poteva più contare sui cospicui fondi elargiti. Le tasse, che erano state
eliminate, dovettero essere reintrodotte e, il 27 dicembre 1485, balzelli,
tasse e tributi vennero tutti ripristinati. Costretto dalla mancanza di
capitale, Riario fu costretto a convocare il Consiglio di fronte al quale
annunciò la reintroduzione dei dazi alle porte a partire dal 1º gennaio 1486.
Al mal contento della popolazione che rivedeva il ritorno di numerose tasse, si
aggiunse anche quello della nobiltà locale e dei proprietari terrieri che
furono anch'essi fortemente tassati. Nel tentativo di non gravare solo sulle
tasse della popolazione, Riario infatti aveva tassato anche la nobiltà, creando
così un dissenso generale che ora coinvolgeva anche gli strati più ricchi della
popolazione che si ritrovava a pagare più tasse di quante non ne pagasse prima
con gli Ordelaffi. Si segnava così l'inizio di una serie di cospirazioni che,
cavalcando il malcontento generale, miravano a rovesciare il Riario. Di questo
malcontento cercò di approfittare Antonio Ordelaffi che, sperando di recuperare
la signoria, cercò, da Ravenna dove risiedeva, di allacciare i contatti con
l'opposizione interna con l'aiuto dei Veneziani, dei Manfredi e di Lorenzo de'
Medici. Un primo tentativo di rivolta si ebbe per mezzo di un certo Antonio
Butrighelli da Forlimpopoli che, scoperto, confessò la congiura e venne
condannato a morte il 3 aprile 1486.
La situazione all'interno della città non fu mai troppo
semplice e Riario sempre capì che erano probabili sommosse e sedizioni. Sebbene
cercasse di conciliarsi con le resistenze interne, venne anche ostacolato dalle
condizioni naturali: la raccolta di grano quell'anno si dimostrò estremamente
scarsa e ciò causò ulteriori frizioni e malcontenti. L'approvvigionamento di
grano da altre nazioni fallì causa il naufragio delle navi che lo trasportavano
e le spese militari, come l'arruolamento di giovani, rendevano il malcontento
generale molto intenso.
La nascita di Giovanni Livio, figlio di Caterina, il 30
ottobre 1486, solennemente battezzato in San Mercuriale, non fece altro che
aumentare il malcontento che sfociò in un tentativo di rivolta scattato nella
primavera del 1487 in assenza dei due Signori. Alla notizia della rivolta,
Caterina si precipitò a Forlì appoggiata da un gruppo di lealisti che stavano
nel frattempo rintuzzando un corpo militare di 500 soldati inviati
dall'Ordelaffi. Sconfitta la sommossa, la repressione attuata da Caterina
Sforza fu spietata: furono bandite dalla città 60 famiglie sospettate di aver
appoggiato o simpatizzato per gli Ordelaffi e delle quali furono confiscati i
beni. Fra queste famiglie, le più importanti furono quelle dei Morattini,
Mercuriali, Armizzi e Petrignani. Giorgio Savorelli, Rufillo Fiorini, Giacomo
Orioli e Tebaldo Armuzzi, una volta catturati, furono decapitati.
La serie di cospirazioni a danno di Girolamo Riario arrivò
al proprio culmine il 14 aprile 1488 quando Cecco e Lodovico Orsi, con l'aiuto
dei sicari Ronchi e Lodovico Pansechi (ufficiali alla corte del Riario)
attentarono alla vita del Riario in quella che è passata alla storia come la
Congiura degli Orsi. I congiurati si riunirono in una casa poco lontano dalla
Piazza Maggiore, presso la quale era la residenza del Riario, e da qui si
avviarono verso la residenza del signore. Poiché i congiurati appartenevano ad
una delle famiglie nobili di Forlì mentre i sicari erano ufficiali di corte del
Riario, potevano accedere al palazzo del signore senza particolari controlli.
Il conte Riario, colpito a morte da 21 fendenti di pugnale, fu gettato, in
segno di sprezzo, dalle finestre del palazzo sul selciato della piazza.
Diffusasi velocemente la voce dell'assassinio, scoppiarono
tumulti ed il popolo scese in città e saccheggiò la residenza signorile. La
stessa Caterina Sforza, che al momento si trovava in un'altra ala del palazzo,
venne avvertita da un servitore ma, non avendo tempo di fuggire, venne
arrestata con i figli.
Ancora una volta la situazione in città era critica ed
instabile ed il 15 aprile 1488 arrivò da Cesena il nuovo legato pontificio,
monsignor Giacomo Savelli.
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